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dal 25 marzo al 3 aprile
martedì, mercoledì, giovedì e venerdì h 21 - sabato h 19 - domenica h 17

ELETTRA, tanta famiglia e così poco simili

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di Hugo Von Hofmannsthal
con Manuela Kustermann, Flaminia Cuzzoli, Carlotta Gamba, Alessandro Pezzali

scene Luca Brinchi e Daniele Spanò 
costumi Marta Crisolini Malatesta
musiche originali Giacomo Vezzani
luci Javier Delle Monache
aiuto regia Maria Teresa Berardelli
adattamento e regia Andrea Baracco

produzione La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello

con il patrocinio di Forum Austriaco di Roma

Elettra, figlia della regina Clitennestra, ossessionata dal ricordo della morte del padre Agamennone, attende da tempo il ritorno del fratello Oreste: egli vendicherà con l’uccisione di Clitennestra ed Egisto l’omicidio del padre. La sorella minore Crisotemi, al contrario, certa che Oreste non farà più ritorno, esorta Elettra alla fuga, ma lei violentemente rifiuta. Clitennestra è angosciata da un incubo ricorrente: nel sonno ha visto il figlio Oreste che si avventava su di lei e terrorizzata chiede ad Elettra un rimedio per l’orrore che turba le sue notti. Elettra risponde misteriosamente che la quiete tornerà allorché una donna sarà colpita a morte da un uomo. Svela quindi alla madre il terribile mistero: è lei che presto dovrà cadere sotto i colpi mortali del figlio. Ed infatti, l’arrivo improvviso di Oreste permette il compiersi della vendetta.

Il dramma mostra tre personaggi femminili spezzati nel desiderio di essere altro da ciò che sono; chi madre ed è figlia (Crisotemi), chi figlia ed è orfana (Elettra), chi vittima ed è carnefice (Clitennestra). Le tre donne immerse nella più assoluta solitudine, non sono, in verità, mai sole. Uomini, per lo più mezzi uomini, spiano da ogni angolo, e giudicano le azioni delle loro madri, figlie, sorelle, amanti.

Note di regia

CLAUDIO: Ma ora, a noi, Amleto, mio nipote e figlio.

“Servirsi dell’antichità come uno specchio magico in cui speriamo di ricevere il nostro proprio volto”. Parte da questo impulso intellettuale Hofmannsthal, accingendosi alla riscrittura del classico sofocleo. Spoglia l’immagine dei miti da ogni possibile dimensione storica, culturale e antropologica, restituendo corpi secchi, minimali, fuori da qualsiasi retorica e pathos. Rovescia sopra le pagine del mito una bottiglia di whisky e lascia vivere i personaggi in un’ebrezza feroce, senza tregua, in una sorta di spazio onirico in cui si è più ombra che figura. Elettra, mcosì ci appare, come una grande messa in scena della psiche, con i protagonisti alla ricerca delle parole con cui raccontarsi; quelle parole, quella lingua, che non hanno accesso agli abissi della vita.

Chi, come Lord Chandos, autore immaginario della famosa lettera di Hofmannsthal, si lascia sopraffare da questa esigenza, ne viene a tal punto travolto da dover rinunciare a scrivere, da precipitare nel silenzio, fino all’afasia. Il dramma mostra tre personaggi femminili spezzati, che vivono nel desiderio di essere altro da ciò che sono: chi madre ed è figlia (Crisotemi), chi figlia ed è orfana (Elettra), chi vittima ed è carnefice (Clitennestra).

E non è affatto semplice riuscire a trovare le parole per narrare la zona di confine, l’ibrido, la soglia, il doppio, la complessità; spesso si entra nella balbuzie, nell’inciampo linguistico, nell’incapacità di far proseguire la frase: “Le parole astratte, a cui la lingua, secondo natura, deve pur ricorrere per esprimere un qualsiasi giudizio, mi si sfacevano nella bocca come funghi ammuffiti”.

Lo spazio è un delirio di ombre/fantasmi che, ben in vista, si nascondono, rendendo il luogo lugubre e pieno di insidie. Le tre donne, immerse nella più assoluta solitudine, non sono, in verità, mai sole. Uomini, per lo più mezzi uomini, spiano da ogni angolo, e giudicano le azioni delle loro madri, figlie, sorelle, amanti. I legami sono spezzati, per sempre. “Tanta famiglia, e così poco simili” risponde Amleto allo zio Claudio che lo sollecita sul tema. Mi piace pensare che Hofmannsthal, grande amante di Shakespeare e ossessionato dal Principe, sia partito proprio da qui, da questa battuta, per la sua Elettra. C’è molta, troppa famiglia, dentro le teste delle tre donne. C’è molta, troppa memoria del maschio/padre.

Bisogna liberarsene, eliminarlo, se necessario ucciderlo e subito dopo abbandonarsi al silenzio.

Andrea Baracco

 

LA SOLITUDINE DI ELETTRA di Roberta Ascarelli

Il pellegrinaggio esistenziale di Hofmannsthal alla ricerca di un riscatto dalla crisi creativa si conclude improvvisamente nella primavera del 1903 in un camerino del Burgtheater di Vienna dove incontra un immaginifico regista e una eccezionale attrice. “Mi venne il desiderio di scrivere quest’opera – così ricorda Hofmannsthal la genesi della Elektra – sentendo parlare il direttore di teatro Max Reinhardt il quale aveva detto che non rappresentava opere antiche, adducendo il carattere gessoso delle traduzioni e degli adattamenti”. Quel gentiluomo schivo che poco amava il teatro rappresentato gli propone allora una “tragedia moderna” affascinato dai suoi allestimenti marcatamente antinaturalistici che rassomigliano a una partitura musicale, e dall’espressività della prima attrice, la giovanissima Gertrud Eysoldt, interprete aggressiva e sensuale, specializzata nella rappresentazione di figure femminili perverse e istintive. “Se filologi, antichisti ecc. si preoccupano della conservazione dell’antico ad ogni costo, allora ci dovrebbe essere anche chi si preoccupa di preservare ad ogni costo ciò che è vivo” – afferma Hofmannsthal e, in questo spirito, scrive nell’estate di quell’anno, in sole 5 settimane Elektra, un adattamento che lascia praticamente inalterati vicende e personaggi della tragedia classica, ma trasforma il linguaggio per redimere – afferma – il testo sofocleo dal suo sapore artificioso e donargli una moderna, coinvolgente vitalità. Malgrado la dichiarata moderazione, Hofmannsthal introduce variazioni importanti al modello. Molte le soluzioni stilistiche o sceniche originali (l’assenza del coro, la concentrazione della vicenda in un solo atto, le modalità dell’arrivo di Oreste e del duplice omicidio), inedita soprattutto la psicologia dei personaggi. Come nota Hladny, “I corpi dell’Elektra hofmannsthaliana sono presi da Sofocle, ma le anime sono tutte di Hofmannsthal”. Sono anime lacerate, in bilico tra due mondi – uno arcaico, opprimente e demoniaco, e uno invece modernissimo, “nordico” che si interroga malinconico sulla comunicabilità dei sentimenti e che cerca uno specchio e una liberazione dalle false promesse della scienza e del progresso. Per tratteggiare i suoi personaggi nel loro ferroso smarrimento si vale delle suggestioni che gli giungono dalla lettura di testi che criticano le illusioni della razionalità e del positivismo: sono le opere di un classicista nietzscheano come Edwin Rodhe, di un medico viennese che ha iniziato a sperimentare con Anna O. la talking cure, Joseph Breuer e di uno studioso delle malattie della personalità e della memoria Théodule Ribot. Confortato dai loro scritti, afferma che il mito è “punto di congiunzione tra la sobrietà ben orientata dell’intelletto e il delirio di uno stato febbrile”, una fuga dalla ragionevolezza strumentale e dalle rassicurazioni dell’apparenza. Così, dopo aver inutilmente cercato l’equilibrio tra le suggestioni liriche della giovinezza e la volontà di agire sulla umana consapevolezza vede nell’Elektra l’occasione per una discesa agli abissi della vita che coinvolga anche il pubblico da strattonare verso emozioni inedite e travolgenti. “I personaggi della tragedia – scrive – sono figure magiche che spalancano di fronte all’autore le porte degli inferi e regalano quella dimensione sacrale che gli permette di dimenticare completamente se stesso come ad una messa”. La ritualità arcaica dei misteri incontra l’esperienza moderna dell’inconscio e guida attraverso un percorso liberatorio che accomuna il poeta e il suo pubblico in una esperienza estetica ed emotiva che non ha più nulla di museale. Questo viaggio è affidato soprattutto alla vibrante sconnessione della protagonista e delle donne della sua famiglia. In una scena oscura, illuminata da un fascio di luce rossa, con un albero di fico sullo sfondo che allude ad un paesaggio mediterraneo (così le indicazioni sceniche di Hofmannsthal) e alcune ancelle che sussurrano la loro infelicità, Elektra appare in tutta la sua solitudine. Senza legami, valori, oscillazioni del cuore, vive oscuramente in un passato invaso dalle ombre. A differenza dalla antenata sofoclea che si strugge per difendere la legge maschile della giustizia e dell’onore coltivando l’attesa e la pietà, Elektra è compagna fedele e ossessiva della morte: la ricorda, la invoca, la minaccia. In questa ossessione, la natura la possiede: è “un gatto selvatico” per le donne del coro “una pantera” per il pubblico che assiste alla prima rappresentazione, “un animale nel suo covo”, nelle didascalie dell’autore. Si sfaldano tra gesti e grida sconnessi i confini della sua personalità in un offrirsi impudico e malato che la coinvolge insieme alla madre e alla sorella in una dimensione che accoglie tutte le suggestioni della Nervenkunst asburgica. Gli incubi fanno vacillare la mente di Klytämnestra, il desiderio struggente di normalità ha incrinato l’identità femminile di Chrysothemis, Elektra compare sulla scena come l’invasata sacerdotessa del Dio della morte. Per tutte e tre le donne il grumo disturbante è nell’impossibilità di superare lutto e colpa mentre la realtà, il futuro e l’azione non trovano spazio nella loro vita. L’unico elemento oggettuale che ha in sé la forza del riscatto è il Beil, la scure che aveva ucciso Oreste e che Elektra aveva conservato lunghi anni sognando la vendetta. La concretezza simbolica dell’oggetto rappresenta ancora un legame con la realtà, in un mondo che invece vede sconvolti tutti gli altri segni: la memoria, l’idea del bene del male, i sentimenti di solidarietà e di reciproca protezione. Una volta riportata alla luce e nuovamente impugnata dal vendicatore, avrebbe permesso di ripristinare l’ordine turbato dall’omicidio e di sanare la componente patologica che blocca Elektra. Ma la donna dimentica di consegnare il fratello il Beil. La scure rimane sepolta e l’impossibilità di riportare alla luce l’oggetto, definitivamente ‘rimosso’ dalla sua vita, la incatena alla follia spingendola a morire in una danza senza senso che si configura come rifrazione macabra e nichilista dell’abbandono dionisiaco “Non vi sono più dare in cielo”, afferma, nè vi è sulla terra l’oggettività redentrice dell’ultimo simulacro di realtà: il segno tragico del delitto. 

 

Roberta Ascarelli, insegna Letteratura tedesca all’Università di Siena e Letteratura ebraica all’Ucei. I suoi ambiti di studio sono la letteratura del fine secolo austriaco, la letteratura ebraico tedesco e la letteratura moderna di aria ashkenazita. Ha insegnato in atenei americani, canadesi e austriaci letteratura tedesca e cultura yiddish. Fa parte di comitati scientifici di riviste e di istituzioni; è, inoltre, presidente di Ayn-t, segretaria generale del Premio Fiuggi e presidente della Amicizia ebraico-cristiana-Roma

 

info 065898031  promozioneteatrovascello@gmail.com

RASSEGNA STAMPA

Elettra, così tanta famiglia e così poco simili – il Gufetto 04/04/2022

Sorelle a confronto – Oggi7 04/04/2022

ELETTRA, tanta famiglia e così poco simili – Persinsala 04/04/2022

Rivisitazione onirica e rock del classico di Sofocle – CineBazar 28/03/2022

I Classici nei palinsesti romani – Latina Oggi 30/03/2022

Elettra – Tanta famiglia e così poco simili – eorateatro.com 26/03/2022

ELETTRA, tanta famiglia e così poco simili – Chi è di scena RAI3 26/03/2022

La mia Elettra. Tagliare le ossessioni con il rock e i sogni – la Repubblica 26/03/2022

10 domande a Andrea Baracco – il Messaggero 26/03/2022

Hofmannsthal e il mito di Elettra – il Corriere della Sera 25/03/2022

Il dramma di Elettra – il Trovaroma 24/03/2022

Il dilemma di Elettra tra famiglia e desiderio – il Tempo 23/03/2022